Servitevi da soli
Non vi sopporto ma sono pagato per farlo
sabato 15 gennaio 2022
sabato 3 aprile 2021
Ci sono delle cose che, per età, per normale ricambio generazionale, tra non molto spariranno.
Non ho la minima intenzione di fare discorsi da cima di una pure africana, spiegando minchiate tipo il cerchio della vita con Elton John in sottofondo, nemmeno mi lancerò in discorsi fessi "che ne sanno i (anni a caso)..." ricordando quanto fosse bello fare una certa cosa, ovviamente andata perduta con l'avanzare degli anni e il passare delle generazioni. Ogni volta che sento idiozie di questo tipo, cose come la foto di una musicassetta e una bic, con sotto delle scritte su quanto la generazione che ne ricorda l'uso sia migliore di quelle che, la musicassetta, non la saprebbero nemmeno usare, mi viene l'orticaria. Penso a mia nonna che piangeva ascoltando Natalino Otto alla radio, mia mamma felice di aver trovato un disco di Caterina Valente e mio padre mentre mi parla dell'amicizia tra Carosone e Gegè di Giacomo, tutte cose che andranno perdute tra non molto. Le ragazze che lanciavano i reggiseni a Mal, non ci sono più.
Tutto questo per dire che una delle cose destinate a sparire, sarà Colombo.
Lo ribadisco, sarà sacrosanto.
Adoro Colombo, venero Colombo, il pensiero che sparirà o che sarà destinato a essere solo un lieve ricordo in occasione di una ricorrenza legata a Peter Falk, però, non mi atterrisce. È giusto. È normale.
Colombo è un personaggio complesso.
Estremamente galante, educato, rispettoso, disordinato ma sempre attento a che tutto torni. Non è ossessionato dall'aver ragione e nemmeno dal dover dimostrare agli altri qualcosa. Ha un dovere da compiere, è felice nel compierlo, trova la sua vita felice e gratificante con quello che ha o riesce a ottenere con il lavoro.
Molto del suo successo lavorativo lo deve al fatto di svolgerlo in un mondo inventato, irreale, dove il colpevole crolla dopo essere stato scoperto, spesso con prove che sarebbero letteralmente devastate anche da un avvocato d'ufficio, figura che viene descritta come l'intima essenza dell'incapacità.
Non è perfetto, non è certo un cavaliere senza macchia e senza paura: mente, manipola e usa i colpevoli o chi ha intorno per raggiungere il suo scopo, ma mai in maniera malevola e mai senza scusarsi per averlo fatto. In una puntata fa credere a una ragazza che la zia, colpevole di omicidio, uccise anni prima anche suo padre, lo fa per innervosire la colpevole e indurla a tradirsi. Nel finale della puntata, però, offre il braccio alla omicida per farla uscire dalla stanza come conviene a una signora, dichiarandosi onorato nel poterlo fare, una scena che mi ha sempre ricordato l'onore delle armi concesso dal maggiore Richardson al Capitano Blasi.
Una delle mie puntate preferite è "Prova d'intelligenza".
Colombo deve risolvere un caso di omicidio avvenuto in un club privato simile al Mensa, dove si riuniscono persone con un QI molto al di sopra della media, il colpevole, uno dei soci fondatori, ha ucciso un suo amico perché non lo denunciasse dopo aver scoperto che rubava i soldi dell'associazione per mantenere la sua vita agiata, convinto che solo per quel motivo la sua bella moglie rimanesse accanto a lui.
Il colpevole sistema degli oggetti in una stanza al piano superiore perché si muovano in un perfetto effetto domino, costruendo quello che pensava essere un alibi perfetto.
Tutti i "geni" del club tentano di risolvere il caso, ognuno di loro con delle teorie assurde che vengono educatamente distrutte da Colombo, quasi mortificato nello spiegare loro che le aveva prese in considerazione ma subito accantonate perché sbagliate: ognuna delle spiegazioni di questi geni si rivela una sciocchezza. Colombo, come suo solito, non molla il colpevole sottoponendogli decine di teorie ancora più assurde e piccole incongruenze che gli sono saltate all'occhio, sottolineando come mai gli fosse capitato di trovarsi al cospetto di tanti geni.
Nella scena finale, in un crescendo tra i più adrenalinici della serie, Colombo inchioda il colpevole nella maniera più semplice: facendo leva sulla sua vanità. Gli fa credere di aver risolto il caso grazie all'aiuto di uno dei soci, non particolarmente brillante, e cambia un solo particolare della ricostruzione: il colpevole urla tutto il suo disappunto e sostituisce quel particolare con quello giusto, da lui stesso usato, quindi crolla felice su una poltrona dopo aver dimostrato di essere il più intelligente di tutti.
Rendendosi conto, dopo solo pochi secondi, di essere invece il più cretino.
Riceve in quel momento, complice solo il diavolo, una telefonata della moglie. Gli chiede di tornare a casa, di tornare da lei, nel loro letto, che solo quello conta. L'espressione dell'omicida è quella di chi pensava di aver capito tutto, mentre si rende conto invece di non aver capito davvero niente.
Colombo risolve i casi ascoltando. Senza mettersi su un piano più alto dei colpevoli, fa leva sui loro errori e, soprattutto, sulla loro vanità: per quanto efferati sono i loro delitti o quanto considerino alte le motivazioni che li portano a uccidere, quel che davvero non riescono a sopportare è l'aver messo a punto il delitto perfetto senza che nessuno ne renda loro merito o si sentono talmente tanto in alto da permettersi di considerare una nullità non solo quel buffo ometto che li rende tanto nervosi ma anche tutti quelli con cui hanno a che fare.
Come tanti altri, parlano godendo del suono della propria voce, senza ascoltare.
Hanno sempre ragione.
Ma basta una persona che non si comporta come loro a far crollare tutto.
In questo, il telefilm di Colombo ha più elementi fantascientifici di Star Trek.
venerdì 12 febbraio 2021
Una rissa è lo spettacolo più bello del mondo.
Qualcuno di voi storcerà il naso, dicendo che no, si tratta solo di barbarie e, come tale, deve essere repressa, nascosta e tenuta a bada dall'ordine costituito. Complimenti, bella cazzata.
I più cretini di voi, ma quelli proprio proprio senza speranza alcuna, quelli che nemmeno una volta gli si è appicciata nella capa una luce appena abbastevole a fargli balenare il pensiero "ohibò, mi sa tanto che sono un cretino", un pensiero che, da solo, non dico poco ma l'avrebbe sollevato fino alle altezze dei filosofi greci! Ma una roba che, nel caso, avrei raggiunto il genio, la mente superiore in grado di elaborare questo straordinario concetto e si sarebbe trovato intestato casa mia per la gratitudine, iniziando io quindi una vita di vagabondaggio ma felice di aver donato conforto e riparo a chi più di me, molto ma molto più di me, ne aveva diritto.
E invece no, dicevo, solo la sozzura umana, l'anima della chiavica di questo mondo starà pensando "non è esempio da dare ai bambini, non si deve insegnare che la violenza abbia una sua bellezza"... ecco, cortesemente, avviate le vostre belle teste di minchia, le vostre idee da Domenica del Corriere con il carabiniere in copertina (a proposito, eccovelo bello servito l'ordine costituito, quelli sì che ne sanno di violenza gratuita) e pure la vostra bassa considerazione della filosofia greca, convinti come siete che gente come Socrate e Platone, ma anche un onesto gregario come Anassimandro, siano stati solo inchiappettatori seriali in tunica colorata. Fatto questo ennesimo pensiero dimmerda nella vostra testa buona solo per essere trasformata in bicchiere da un minchione longobardo, prendete e buttatevi dentro la più vicina latrina con un tuffo da far impallidire d'invidia un ragazzotto messicano agio a buttarsi dalle scogliere per pochi spiccioli e briciole di fica generosamente donata da sparute ragazzotte annoiate, ma più facilmente da vecchie e danarose vecchie americane, anche loro annoiate.
Non capite un cazzo, fatevelo dire da me. Che ve lo posso dire anziché no.
Non c'è spettacolo più bello al mondo di una cazzo di rissa come si deve.
E quella che andrò a raccontare è stata la madre di tutte le risse, una roba da far passare in secondo piano una svendita della Standa, da relegare Waterloo a un fatterello di corna dove due cornute, appunto, si tirano i capelli in un androne condominiale per la gioia delle commari di tutto il rione Sanità e nemmeno perché umiliate dal comportamento di uno che, a guardarlo, una femmina come si deve non gliela dovrebbe dare nemmeno se ne avesse una d'avanzo, no, ma proprio perché resosi conto di essere state fatte minchione da un batrace simile, pensano di recuperare femminilità nel modo sbagliato, imitando l'uomo. La donna tradita, per essere davvero femmina, ben altri comportamenti dovrebbe avere, ma che ve lo dico a fare che già vi fa male la capa e non capireste un cazzo, questa ce la teniamo per dopo, non mi interrompete.
No signori belli, qui si era di fronte al completamento di mesi, ma che dico mesi, anni di preparazione metodica e puntigliosa da parte di persone che facevano della violenza non la ragione di vita, quella è una cazzata che i finti artisti cagano fuori dalle bocche durante le solite interviste dei rotocalchi di cui sopra, per giustificare il fatto che loro, nella loro insulsa e micragnosissima vita, non hanno mai lavorato manco per il cazzo datosi che avevano l'arte come ragione stessa d'essere, mentre la loro, di vita, veniva abbondantemente ragionata da qualche milione di imbecilli disposti a bersi le loro minchiate.
No, questa gente aveva fatto della rissa una scienza esatta. E non devo venirvelo a dire io, che pure potrei e nemmeno poco, che non c'è niente di più poetico della matematica.
Ma sì, ve lo devo venire a dire io, che voi non capite un cazzo.
La matematica ha permesso la costruzione di minchie di ferro francesi sotto le quali centinaia, no, migliaia di miliardi di ingenue ragazzotte che mai prima avevano permesso a uomo nemmeno di avvicinarsi, figuriamoci toccarle, hanno avuto agio a separarsi da gonne, sottane e crinoline tanto velocemente da far tornare questi indumenti indietro nel tempo, a quando erano erano ancora palle di cotone raccolto da chi, a raccoglierlo, era convinto a frustate.
Ma sto divagando, e la colpa è solo vostra.
Andiamo, come dicono quelli bravi, alla fredda cronaca.
Peppino il Greve giaceva a terra coperto di sangue, suo e di chissà di chi altro, con un sorriso estatico da sembrare quello di un martire cristiano. Il viso, almeno quello che era possibile ancora definire tale e che faceva la sua comparsa tra un ematoma e una ferita lacero contusa, e qui mi fermo per non divagare ancora ma quante cazzo di pagine e pagine di letteratura che i Promessi Sposi sono una cazzata scritta da un barman longobardo si potrebbero scrivere sulla poesia delle parole "ferita lacero contusa", madò, non mi fate dire o piango come un bambino pensando solo ai diritti d'autore che mi garantirebbero una vita tra cocktail con l'ombrellino e pompini regalati da ragazze in bikini di dimensioni interdentali. I bikini, ovviamente, perché e'femmine mi piacciono con tutta la gioia che una vita di vino, cibo e risate possono mettere intorno alle ossa. Fatto sta che Peppino il Greve aveva l'espressione di quella santa che non sai se sta vedendo il paradiso o glielo hanno appena fatto pure sentire n'miezz'e cosc', il paradiso. Quella merda umana capace di vendere sua madre al mercato, e se a fine serata non l'aveva venduta era disposto pure a venderla a trance come un tonno, aveva un'espressione da far invidia, i muscoli del viso erano modellati per far capire che lui sì, lui era uno che sa quale cazzo è il suo posto nel mondo e che sì, porco cazzo, la sua vita ha senso, ha avuto senso e per sempre lo avrà, fanculo a tutti voi che ancora lo cercate e vi addannate l'anima nella speranza di trovarlo mentre, al suo confronto, siete solo scarafaggi che spingono avanti e indietro la loro bella palla di merda.
Il suo giacere era muto, silenzioso, se ne stava lì, come uno stronzo che ha lavorato tutta la settimana dentro un ufficio umido e la domenica ha la singolare e originalissima idea di andare al mare a Ostia. E dopo due ore di fila sulla Colombo, altre due ore per cercare parcheggio in un posto dove, semplicemente, parcheggio non c'è, non esiste, è una favola e un gioco, perché le strade quelle sono da quando Ostia non era ancora la fortezza di Helm di tutta la mafia laziale e non. Ma le macchine, invece, le macchine sono si sono moltiplicate come le buche, buche che hanno mandato figli di gommisti a studiare nei migliori college americani e permesso ai gommisti stessi di mettere dentro casette discrete e silenziose stormi di rumene, russe, moldave e ucraine dalle gambe lunghe come fenicotteri destinate a riempirsi di grasso e ciccia diventando palle al piede esattamente come le mogli di cui dovevano essere la prima riserva, i numeri dodici. Il problema è che poi sono diventate delle numero Uno bis, che è peggio della numero Uno regolare, quella sposata dentro le mura di santa romana chiesa, perché la bis, quando parla, non la capisci anche e più della Uno di ruolo.
Tolto il colore del sangue e l'espressione sulla quale mi sembra si sia ampiamente detto sicché, la faccia di Peppino sembrava in tutto e per tutto un cesso cagato e pisciato del più fetente McDonalds d'Italia, il lunedì mattina, un attimo prima del primo turno di pulizia settimanale, dopo un week end in cui il turno festivo aveva deciso che non era pagato abbastanza per quello schifo di lavoro.
La rissa, dicevo.
No, dicevo di Peppino, che non vi ho detto nemmeno perché si chiama così.
No, ve lo dico un'altra volta. E smettetela di interrompermi che poi perdo il filo del discorso.
venerdì 5 febbraio 2021
Il quartiere era quieto, almeno escludendo quelle cazzo di sirene della polizia.Non si muoveva una macchina, le strade erano state bloccate e transennate per un raggio di almeno due chilometri dal palazzo. Togliendo le carrozzelle degli storpi, non si muoveva nulla che avesse le ruote, men che meno un motore. Non si sentivano nemmeno i ciaetti smarmittati, quelli che sembrano essere stati creati solo per passarti sotto casa a tutte le ore del giorno, anche alle tre di notte, quelli che, dio ti perdoni, più di una volta hai sperato di sentirli spengere dopo un colpo di pistola.
Il casino, comunque, era garantito da almeno una quindicina di volanti felici di strillare ognuna con la propria sirena, in perfetto disaccordo con tutte quante le altre. Tra i tanti motivi che ci sono per odiare gli sbirri del cazzo, beh, c’è anche il non avere senso del ritmo.
Molti tra i presenti si chiedevano perché non le spengessero, anche perché si vedeva chiaramente quanto anche gli sbirri fossero infastiditi da quel rumore simile al campanello di casa suonato da una suocera, ma nessuno osava farle smettere. In seguito si venne a scoprire che fu lo stesso Vergnaghi a ordinare di non fermarle per nessun motivo, l’idiota voleva tutta l’attenzione possibile.
Non credete alla stronzata che ha detto dopo, che voleva coprire con le sirene il rumore degli spari per non spaventare la popolazione, quel cretino le ha lasciate suonare proprio perché, di spari, sapeva benissimo che non ci sarebbero stati.
Senza contare poi, che per spaventare via Mattia Battistini, ci sarebbe voluto solo il ritorno dei tedeschi. E dovevano portarsi dietro pure la Luftwaffe, altrimenti niente.
No, il coglione voleva tutta la scena per prendersi l’attenzione dei giornali.
Beh, la ottenne. Magari non come desiderava, ma questo è un altro discorso.
Vergnaghi non è mai stato nulla di diverso da una ben costruita testa di cazzo, in pratica, con quel bordello da film americano voleva finire sulla prima pagina pure della Gazzetta dello Sport. Dall’inizio dell’indagine aveva avuto un solo e unico pensiero: se riesco a prendere Menuri, meglio una frase celebre o una foto memorabile?
Ora, tutto si può dire su Vergnaghi ma bisogna riconoscergli l’indubbio merito di essere un indiscutibile imbecille e, contrariamente a quanto si crede, non è qualità da sottovalutare. L’idiota rischiò addirittura di arrivare tardi all’operazione che lo avrebbe reso immortale, l’arresto in grado di farlo entrare nei libri di storia corse il rischio di non vederlo protagonista perché si stava facendo i capelli. I capelli. Anche solo per questo, una figura di così elevata stronzaggine, deve essere amata alla follia: è forse possibile non rimanere affascinati da una dimostrazione così evidente di come noi tutti si discenda da una razza che vive tra gli alberi, mangia banane e si tira la merda addosso per risolvere i conflitti?
Ecco, Vergnaghi è talmente cretino che la prenderebbe dal culo di un altro.
Negli ambienti si dice come avesse pensato tutto, progettato i minimi particolari dell’arresto, insomma, dopo anni e anni in cui il Pesante ostentava una libertà quasi oscena, anni in cui faceva quel che cacchio voleva passando tutte le sere nei locali alla moda, perennemente con una mano sul culo di attrici e cantanti che poi sarebbero andate il sabato sera a Fantastico da Pippo Baudo… quel demente doveva essere devastato dall’invidia.
Quelle attenzioni, quei riflettori, quella fama, la voleva lui.
Insomma, nel palazzo entrarono l’equivalente di tre reggimenti di poliziotti, tutti armati con mitra, pistole, fucili, torce, forconi e l’anima di tutti i più selezionati mortacci loro, tutto quello che potevano portarsi dietro: se fossero passati per le scale, si sarebbero portati pure dei siluri, da usare nello sventurato caso che Menuri si stesse facendo il bagno.
Tutto perfettamente inutile.
Per l’arresto di Loris Menuri non fu sparato nemmeno un mortaretto, una miccetta, una stella filante. Niente. Non fosse stato per il casino delle sirene, lo avrebbero preso e portato via senza che lo notassero nemmeno le signore intente a stedere i panni sui balconi.
Quello fu lo strano, il motivo che fece alzare più di un sopracciglio in tutto il quartiere.
Il Pesante lo consideravano tutti come capoccia fina… insomma, poteva anche starti sulle palle, ma non avresti trovato nessuno convinto di poterlo fregare, men che meno le guardie, considerando come lui, invece, era sempre riuscito a prenderli per il culo… invece non passano nemmeno venti minuti e dal portone del palazzo escono i primi sbirri per fare strada, un corridoio tra i tanti giornalisti e fotografi presenti, una roba che, da un momento all’altro, ti aspetti tirino fuori le spade e facciano quella stronzata che vedi ai matrimoni dei militari. Dopo qualche secondo apparve Vergnaghi. Vestito bene, quello che indossava sembrava quasi essere l’abito della festa: l’indomani, sarà sulle prime pagine di tutti i giornali e ci tiene a non sfigurare, lo stronzo. La differenza con Menuri, era incredibile: camicia bianca fuori dai pantaloni, senza giacca, spettinato, con le manette ben strette ai polsi visibili a tutti. Non gli misero nemmeno quelle normali che vedi nei film americani ma aveva i polsi strizzati da quella cosa solo italiana che sembra uscita da un racconto dell’inquisizione spagnola, quella roba pesantissima con la vite a farfalla sopra, manette che non si limitano a immobilizzare ma fanno un male cane se te le stringono troppo, e le stringono sempre troppo, gli stronzi.
Si fa presto a cambiare idea su una persona: tutti ma proprio tutti a Roma abbiamo sempre pensato che Menuri, cazzo, parliamo del Pesante, non lo avrebbero mai arrestato. Vivo, almeno. Era chiaro come il fatto che un paio di belle zinne piacciono a tutti che la sua storia sarebbe finita su un’isola tropicale a godersi i miliardi o in un capodanno di pallottole che nemmeno a Napoli. Negli occhi dei presenti si vedeva qualcosa di assurdo, avevano istantaneamente cambiato idea su Menuri perché, nel vederlo così malmesso come mai nella vita, a tutti sembrò solo un altro povero stronzo preso dalla polizia, uno dei tanti che si sono creduti furbi e l’hanno fatti cojoni. Improvvisamente, quello che tutti avevano creduto un dio, appariva come un vecchio del cazzo, uno tanto spezzato da non opporre nessuna resistenza all’arresto. Lui, che nessuno aveva mai toccato, che non aveva mai permesso ad anima viva nemmeno di sfiorarlo, lasciava che Vergnaghi lo conciasse in quel modo prima di portarlo fuori, facendosi trattare come un cane al guinzaglio.
Quando era chiaro che stavano per uscire, le vecchie sui balconi hanno iniziato a segnarsi. L’assenza totale di ogni rumore di spari, esplosioni, grida e ambulanze faceva paura. Quello fu davvero strano. Si dovrebbe saltare nel sentire uno sparo, nel vedere un infermiere scendere di corsa da un’ambulanza che si ferma di colpo vicino casa tua, al cinema, se vogliono spaventarti, mettono delle accidenti di musichette di sottofondo spesso più paurose di un mostro fatto con sputo e cartapesta. Qui, la paura, quella vera, era nel silenzio.
Altri poliziotti di merda escono dal palazzo, seguiti da altri stronzi in divisa, qualche coglione gallonato e un piccolo gruppetto di tizi in borghese con la faccia di chi non è stato cresciuto con la giusta dose di sberle e vaffanculo, mistura che è stata ben presente nella di vita di tutti quelli che si trovano dall’altra parte del cordone di polizia. Stretti l’uno contro l’altro, spintonandosi per conquistare uno scorcio migliore della scena, ci sono ragazzini con le magliette di Mazinga e donne con ancora in mano le buste della spesa, gli immancabili vecchi in canottiera con i loro “lo sapevo” e “ve l’avevo detto che andava a finire così” vicini al nutrito gruppo di puttane che, grazie alla banda, hanno mandato figli alle private e comprato case al mare.
I morti di fame aspettavano di vederlo uscire esattamente così, umiliato e sconfitto, pestato a sangue come capita sempre a loro quando uno dei cravattari si stanca delle loro fregnacce: guardavano Menuri fare la vita che volevano, che sentivano di meritare, senza minimamente considerare che le palle del Pesante, loro, ma quando mai.
I piccolo borghesi, impiegatucci bavosi con le loro vite da primo, secondo e contorno, non sapendo un cazzo di come va il mondo e stronzamente convinti che una cattura equivalga alla fine di una onestissima carriera criminale, andarono in cantina a cercare i coglioni messi ad appendere anni prima a stagionare come salami e se li riattaccarono, regalando a destra e sinistra frasi su come era ora che finisse questo schifo e lo Stato si fa sempre sentire, finalmente, adesso sì che andrà tutto meglio e tutte queste altre idiozie che varranno un bel pestaggio a sorpresa quando torneranno a casa l’indomani dal lavoro. Perché lo Stato, come lo chiamano loro, il giorno seguente sarà tornato dentro al palazzo dimenticandosi di chi cazzo sei e dove cazzo abiti, ma gli amici del Pesante no, loro sì che si ricorderanno una mancanza di rispetto, specie se fatta da una mosca che il giorno prima nemmeno ronzava.
Poi c’è la gente. Mattia Battistini può fare schifo a tanti, può fare paura a tanti e, girando per Roma, senti tante di quelle cazzate su Primavalle da riempirci un’enciclopedia come quelle che ti vendono porta a porta e finisci di pagare da vecchio, con tuo figlio che non l’ha mai aperta nemmeno per sbaglio e trucca i motorini per fare la giornata. Quando non li ruba. Adesso sarebbe facile dire che la gente vera è questa e tutte quelle boiate che scrive Pasolini sul giornale. La verità è che, alla fine, non gliene frega un cazzo a nessuno di quello che sta succedendo… tutti quelli nel piazzale sono incazzati con la Polizia perché non si vedono mai, perché quando serve a loro, non si fa vedere nessuno. Tutti hanno avuto casa svaligiata, tutti possono lamentarsi di uno scippo, un furto o dell’animaccia di qualcuno che gli ha portato via qualcosa che sentivano loro di diritto, dimenticandosi ovviamente che se lo avevano loro, significa solo che lo avevano perché rubato a qualcun altro. Sono incazzati perché gira e gira, qualcosa dei soldi, dei tanti soldi del Pesante, finiva per cadere anche nelle loro mani.
Adesso se ne stavano andando affanculo. Portati via dalla polizia.
Nel piazzale si potevano contare un centinaio di persone, molte altre ne stavano ancora arrivando. Tutte quante avevano uno e un solo pensiero in testa.
Sbirri di merda.
Il ritmo dei poliziotti che uscivano era diminuito bruscamente, fino a interrompersi del tutto. Impossibile sapere cosa stesse per succedere. Le voci non rispettarono quella che poteva essere una pausa drammatica perfetta ma si intensificarono ulteriormente, a chi diceva che al Pesante avrebbero sparato propro lì nel piazzale, come un cane; almeno fino a quando non iniziò a prendere piede una voce messa in giro da un ragazzino del cazzo, brutto come una sconfitta in casa, che avrebbero ammazzato il Pesante usando una spada, come faceva un giapponese in vestaglia nei cartoni della tv.
Il tempo di esibire un sorriso studiato sicuramente a lungo davanti allo specchio e il coglione tirò per un braccio il Pesante facendolo entrare in scena con un goffo sobbalzo.
Vergnaghi sorrideva. Nonostante il fastidio delle luci accecanti, sorrideva. Non voleva una foto come le altre, dove lo stato ha un banale sguardo truce: sapeva che gli occhi di tutti erano per Menuri e lui doveva fare qualcosa di nuovo, diverso, audace come l’uomo che sentiva di essere.
Eccolo continuare allora a sorridere, un sorriso tutto incisivi e canini, una superficie dentaria tanto bianca che avrà sbiancato col Dash.
Quindi sorrise alle macchine fotografiche, allargando le braccia per chiamare l’applauso.
Come Caruso, il suo idolo, a cui vorrebbe tanto assomigliare.
Non può vedere, è abbagliato e distratto.
Non ha voluto nessuno vicino: chiunque avesse osato entrare nell’inquadratura sarebbe stato trasferito nella più lontana caserma del più fetido buco di culo disponibile in Italia, anche in Eritrea, se possibile.
Solo e cieco com’è, non potè fare nulla.
Non lo vide nemmeno partire.
La fronte del Pesante lo colpì in pieno viso riducendogli il naso in poltiglia, nel cadere all’indietro disegnò in aria un arco di sangue tanto vivido e perfetto da costringere molti giornali a pubblicare la prima pagina a colori pur di non perdere tutta la potenza di uno scatto fortuito ma perfetto. Sui quotidiani che non poterono comprare quella foto ce ne sarà un’altra, non meno significativa: il questore Vergnaghi a terra, svenuto e coperto di sangue, mentre Loris Menuri, rigido e immobile, fissa il corpo a terra con uno sguardo di inaudita durezza. Guardando quella foto penseresti a un re mentre osserva il corpo del nemico sconfitto, non all’arresto di uno dei criminali più ricercati di Roma.
Lo trovarono che ancora dondolava.
Non proprio caldo caldo ma nemmeno freddo da dire che stava appeso da chissà quanto tempo.
Archiviarono il fatto come volontario: una corda con un nodo che sanno fare cani e porci, uno sgabello ribaltato e tanti saluti. Nell’ambiente ne capitano talmente tanti da non fare più notizia, nessuno gli diede poi tutta questa importanza.
Diverso sarebbe stato se i colleghi non gli avessero tolto dai polsi le manette con cui aveva umiliato il Pesante.
mercoledì 18 novembre 2020
Non te lo so spiegare
È difficile spiegare una sensazione. Specialmente quando è un complesso di cose che fa sì che io mi trovi qui, e parlo letteralmente.
Un autobus che arriva a sorpresa, vuoto, un minuto dopo quello che avevi perso di un soffio.
Rimanere insieme ad altri, boh, tipo quarantamila persone a cantare per una sconfitta, e non riuscire a smettere.
Essersi addormentati di sorpresa sul divano e trovarsi, al mattino, coperti da un plaid.
Due occhi che avrebbero diretto la filarmonica di Vienna solo muovendo le sopracciglia.
«Non ti preoccupare, la risolvo io.» e sapere che è così.
Finire un discorso che hai fatto in preda alla disperazione, dove nemmeno tu sai bene cosa cazzo hai detto e come lo hai detto, ma sai di essere stato ascoltato e, in qualche modo, addirittura capito.
Camminare sotto la pioggia battente ma non sentire freddo.
Il chiacchiericcio dei tuoi amici in spiaggia mentre sei sdraiato a occhi chiusi.
Il rumore di un colpo d'accetta ben assestato, di quelli che spaccano un tronco perfettamente in due.
Cercarsi le chiavi in tasca, non trovarle, rientrare in casa e trovarle subito, anche se non erano al solito posto e non ricordavi di averle messe lì.
Non ricordare l'ultima volta che hai pianto.
La carezza della tua maestra quando eri piccolo.
La prima bestemmia che senti.
Un lungo viaggio in macchina, dove non guidi tu.
L'odore di un libro nuovo.
Vedere con la coda dell'occhio che qualcuno ti ha visto fare un canestro impossibile con una pallina di carta.
Il momento in cui lasci il trampolino.
Avere una fottuta voglia di colpire un cazzo di muro con il più forte dei tuoi pugni, sapendo che lo farai e che quel dolore non ti sarà nemmeno lontanamente utile.
Non aver più bisogno degli occhiali.
Camminare sicuri sentendo una presenza al fianco.
Ridere, e sentire qualcuno che ride ancora più forte di noi.
Trovarsi in una situazione difficile, ma sapere che ne verrai fuori. In un modo o nell'altro. Saperlo per certo.
Sognare un abbraccio, consapevoli di essere in un sogno.
Cazzo.
E non ho altro da aggiungere su questa faccenda.
martedì 17 novembre 2020
Rialzarsi
Due anni fa.
Stasera ho fatto i guanti con Mirko.
Nessuno lo vuole, Mirko.
Quando Ruvido chiama le coppie, tutti si sbrigano a scegliere qualcuno che non sia lui, piuttosto boxano con Ilenia ma lo evitano tutti.
Stavolta, con il cerino in mano ci sono rimasto io.
Ha tatuaggi ovunque, tigri incazzate, serpenti incazzati, solo mezzo tao, la stessa frase in sei lingue diverse: "Non mi devi rompere il cazzo".
È roscio, cosa che a Roma vuol dire più di qualcosa, ma non è certo per quello che nessuno lo vuole.
È sempre incazzato.
E odia essere colpito.
Io l'ho fatto.
Un montante sinistro proprio nell'attimo in cui ha perso la concentrazione per guardarsi riflesso nel vetro della porta. Dopo aver osato l'inosabile, proprio mentre mi sentivo il re del mondo, ho visto i suoi occhi aprirsi, le sopracciglia sollevarsi e diventare curve, i guantoni sollevarsi nella guardia perfetta, incassare la testa e piantare i suoi occhi su di me. Il pensiero "mò sò cazzi" è stato immediato.
Faccio un passo indietro, grosso errore ma sì, quello che ho visto mi ha spaventato e per un attimo di troppo ha vinto l'autoconservazione. Ormai non posso recuperare il centro del ring, ci dividono almeno dieci chili, dodici anni e lui li ha tutti passati in palestra. Schivo un primo diretto sinistro portato con media convinzione, è un pugno di studio, vuole vedere come reagisco e quanto tempo ci metto per farlo, dove apro la guardia. Resisto. Faccio partire una serie di diretti per tenerlo a bada, ho braccia più lunghe e cerco di sfruttare questo vantaggio, ma lui non si muove: chiude la guardia e incassa. Faccio l'errore di aspettare un secondo di troppo per un gancio al fianco.
Le parole chiave sono "tentare" ma soprattutto "un secondo di troppo".
Mi prende in piena faccia il 38 barrato.
La prospettiva cambia completamente, non è la Nevsky ma un soffitto candido e luci improvvisamente accecanti. Non sento nulla, campane, uccellini, cori angelici sono tutte cazzate da film: quando sei a terra non senti nulla. Nulla.
Ma capisci.
Adesso sarebbe il momento di una di quelle cazzate motivazionali, di come il tuo valore si misuri sulla capacità di rialzarsi e roba simile.
Diamine, pensi, il pavimento del ring è morbido.
Riesci anche a respirare, cosa che al quinto round, se non sei allenato, fai con estrema difficoltà.
La faccia non ti fa male, ancora, quindi stai anche una favola.
Di rialzarti non hai proprio voglia, stai bene.
Ma lo fai.
Non per chi ti aspetta, non per chi ti sta guardando, nemmeno per chi hai paura di deludere o per il timore di perdere la faccia. No.
La verità è che quando ti rialzi, nemmeno tu sai il perché. Ma lo fai.
E quando lo fai, sorridi. Stupidamente, scioccamente tu, almeno tu nell'universo, solo ed esclusivamente perché avevi voglia di restartene comodo a terra ma hai sentito qualcosa. Non te ne sei accorto, ma lo hai sentito. E quella cosa ti ha rimesso in piedi senza che te ne rendessi nemmeno conto.
Ti rialzi solo per il tempo di prenderne un altro da Mirko, ma ti sei rialzato una volta, puoi ripetere ancora il tutto.
Non sono più riuscito a colpirlo, sia chiaro, e lui mi ha preso spesso e volentieri.
Ma eravamo in piedi, cazzo.
Ruvido ha suonato il gong mentre ero a terra, non c'è conta in allenamento, quindi può considerarsi un k.o.
Dalla mia comoda postazione orizzontale, ho visto il suo faccione mettersi tra me e le luci. Sono riuscito addirittura a capire la sua domanda:
"Che cazzo hai da ridere?"
Non ha aspettato una impossibile risposta, mi ha sollevato prendendomi da dietro, mi ha slacciato le protezioni e tolto i guantoni. Non avevo ancora ripreso fiato, non ero ancora in grado di dire nulla, per questo non ho potuto rispondere quando mi ha detto
"Hai capito perché ti sei rialzato?"
"No"
"Ma lo hai fatto. Tre volte"
"Sì"
"Sei un fine conversatore, complimenti, dovresti scrivere libri ed essere invitato nei salotti della Roma bene"
"Beh..."
Allarga le braccia e fa un passo indietro.
"Ma nemmeno da Kant escono simili perle, devono invitarti nelle università per dei seminari, ma bravo!"
"Io..."
"Ti aiuto perché ti vedo provato: ti sei rialzato per me?"
"No"
"Perché hai pensato a stronzate tipo parenti, compagne e cose così?"
"No"
"Per te stesso allora"
"Nemmeno"
"Stai migliorando a vista d'occhio! Allora perché, sentiamo"
"Non lo so. La verità è che non lo so. Non avevo fiato, sapevo che le avrei prese ancora e ho anche pensato che, vaffanculo, avresti dovuto fermarlo e non lo hai fatto, ma escludi anche la rabbia, perché non ero affatto arrabbiato"
"Ma ancora non hai capito perché"
"No"
"Perfetto. Non ci pensare, non devi capirlo. Anzi, sbattitene proprio il cazzo del perché, magari il giorno che lo capisci è quello in cui resti a terra. Rialzarsi conta, i motivi, no"
Si cade.
Per un pugno o perché si scivola.
Ma ci si rialza. Sorridendo.
Senza un perché.
È difficile. A volte impossibile.
Ma succede.
E se non succede subito, si aspetta magari di riprendere fiato un attimo.
Rimanere a terra non significa essere sconfitti, spesso si sta solo riprendendo fiato o aspettando che quel qualcosa che ci ha fatto rialzare in passato torni di nuovo.
Forse vi starete chiedendo quale sia quella cosa, quella che si sente a terra e che ci fa rialzare.
Curly. Chiedete a lui. Se non sapete chi è Curly, andate a guardare quel capolavoro che è Scappo dalla città.
E saprete cos'è.
La mia, la so.
Ma è diversa per tutti, occhio.
domenica 18 ottobre 2020
Adesso vi imparo la felicità o, almeno, una buona imitazione.
lunedì 5 dicembre 2016
Come sono andate davvero le cose
venerdì 8 maggio 2015
sabato 13 dicembre 2014
mercoledì 19 novembre 2014
venerdì 7 novembre 2014
martedì 4 novembre 2014
lunedì 27 ottobre 2014
"Ciao papo"
Alta. Bella. Sorridente. Vestita facendo esplodere una bomba carta nell'armadio di un boscaiolo scozzese. Capelli con punte blu. Si muove con la stessa grazia con la quale Tyson potrebbe interpretare Lady Oscar.
Vederla mi fa sentire bene e scatena in me un istantaneo sorriso.
Mia figlia Chiara. 15 anni per quasi un metro e ottanta di preoccupazioni adolescenziali.
Le mie.
"Ciao tesoro, che ci fai qui, perchè non sei a scuola?"
Sorride
"Anche io sono felice di vederti. Sono andata e tornata come una cartella esattoriale" - sì, è di famiglia - "c'era sciopero"
"Di che?"
Inizia a snocciolare dita.
"Professori, pare siano sottopagati e quella di Pittorico non arriva a fine mese nemmeno con l'Hold'em online, dei bidelli, hanno finito i contenitori per la differenziata e pare siano in rivolta per il colore dei nuovi grembiuli da lavoro, quella del terzo piano ha detto che il marroncino la svacca, poi gli autisti dei tram, vogliono un cambio di rotta e non accettano un "ma che state dicendo" come risposta"
La conosco, adesso comanda la parte sinistra del cervello e non la fermi più.
"C'era anche agitazione dei baristi, passino i ginseng e mokaccini deca, i karkadè ed i cornetti integrali ecosostenibili, il marocchino senza schiuma ed il cappuccino in tazza fina ma vogliono la possibilità di dichiararsi obiettori"
"A cosa?"
"Agli apericena. Sostengono di avere una dignità. Ben nascosta dietro i vassoi coi biscotti a forma di PeppaPig ma dicono di averla"
"Basta così? Mi deludi"
Mette una mano davanti e sogghigna felice, riconosce una sfida alla chiave torsiometrica quando la vede.
"Tutto il Vaticano era in riunione, da quando Marino ha detto di voler togliere i Sanpietrini, anche gli altri hanno iniziato a preoccuparsi. I pasticceri vaticani erano in prima fila, dicono che i loro patroni già hanno difficoltà coi CupCakes" - tende la mano accusatrice - "e chiedono il ritorno ai vecchi valori contro l'invasione religiosa straniera"
"Poi? Dimmi la verità adesso"
Ridacchia.
Ripenso a quando si addormentava sdraiata sul mio avambraccio, alla prima volta che ha visto la neve (" 'inchia! E' fedda!), ad una bimba coi codini sulla porta di un asilo che dice "mi 'bbandoni" e mio padre che mi aspetta fuori in lacrime, a quando ha colorato le lettere de La Mano Rossa e quando mi ha preso la faccia, guardato negli occhi e detto "Non voglio che muori, basta fumare".
Penso al mio amico Battista che sta per scoprire tutto questo e non trattengo un sorriso.
"Beh, a dirla tutta, sono qui per un altro motivo"
E si fa serissima.
"Quale?"
"Martina e Simone si sono lasciati"
"Martina non chiamava Simone "Sbucciolo?"
Chiude gli occhi.
"Sì"
"Allora la metto tra le buone notizie"
Mentre parliamo, un gruppo di ragazzotti del vicino liceo ci guardano.
No.
Non guardano me.
Commettendo un errore gravissimo.
"Scusa" - la spingo da parte - "ti serve qualcosa in particolare o sei venuto qui dentro per cercare la morte?"
Sbigottisce.
"Io...veramente...cercavo..."
"Zitto, nun meriti manco l'esclamativo alla fine, nun sei degno de parola, nun te meriti manco la destra, vattene o te gonfio co 'a sinistra e manco a pugno, de dorso, a sfregio"
"Io volevo un cellulare..."
"Ah, pure un cellulare, mia figlia e pure un cellulare, che altro vorresti, casa mia? La macchina? Che altro te posso dà pe fatte sta felice? Mòvi ste zampette e deambula fino a affanculo finchè puoi, che manco er sangue me faresti uscì"
Esce caracollando.
Nuove generazioni.
Bah.
Chiara mette una mano sulla mia spalla.
"La prossima volta che ti invitano ad un motivazionale di marketing, vacci. Dà retta"
Leonix Italia, Reparto Sò Greche, ore 12,45