giovedì 29 marzo 2012

Il lavoro è cosa seria

Stamattina, interno giorno.
Un bellissimo commerciante si sta beatamente riprendendo da una nottata passata con figlia tossente al fianco e da scontro titanico con la propria mamma che, per ragioni conosciute solo a pochi eletti, riesce a equivocare il semplice concetto "tira giù tutti gli interruttori e ritirali su uno alla volta, per ultimo il generale" laddove lei, invece, capisce "Zia Peppina ha telefonato in Francia e sarà la prossima allenatrice della nazionale israeliana di tiro del tappo di plastica".
Comunque.
Entra un tipo. Definirlo coatto di borgata fa un torto a tutti quelli che per diventarlo hanno studiato anni ed anni.
Pantaloni lucidi. Azzurri.
Canottiera e tatuaggio "Mamma unico amore", con "Mamma" cancellato e sostituito a fianco con "Roma". Avrei voglia di chiedergli a cosa si dovesse il cambio ma, vai a capire perchè, tengo ancora in maniera quasi ossessiva alla mia integrità ossea.
Scarpe Bikkenmbegerburgher al bacon e rucola solo nei ristoranti che aderiscono.
Occhiali Carrera bianchi con lenti a specchio.
Mani, una a reggersi il pacco (mai fidarsi della legge di gravità, non si sa mai) e l’altra roteante a controbilanciarsi per poter camminare con l’andatura tipica di quello a cui hanno asportato per diletto le rotule.
"Che c’hai i supporti per le macchine nuove?"
Oddio, gli serve un ponteggio? Vuole mettere due macchine in garage al posto di una? E, nel frattempo all’unico scopo di non stancare troppo una mano, passa al rimestamento del pacco con la sinistra. La faccia, nel farlo, tradisce la tipica soddisfazione di chi sa che sta facendo un lavoraccio ma, ehi, qualcuno deve pur farlo.
"Scusi, che tipo di macchina nuova?"
Rimane inizialmente interdetto dal "lei" e gli ci vogliono quei due/tre secondi per realizzare che "lei" e "lui" sono la stessa persona e non si tratta di una canzone di Povia.
"Quelle che tu, tipo, c’hai presente no, che te ne stai a dùmila sul raccordo perchè te gioca la Nazionale e n’vece de annà a dùmila te ne poi sta bello tranquillo perchè hai messo er televisore sul supporto e te la vedi in macchina"
Senza andà a "dùmila", spero.
"Non li ho adesso ma glieli posso trovare, ho bisogno di sapere, però, per quale televisore, dovrebbe dirmi la marca e modello."
"Vosvaghèn Gorf, c’avrà du anni".
Ossignùr. "Non intendevo della macchina, del televisore".
"E io che ne so?".
"Scusi, il televisore è il suo, lo dovrebbe sapere lei".
Passano tre secondi nei quali gli ingranaggi cerebrali girano cercando di liberarsi dalla ruggine, sembra invano, poi l’assenza della domanda "Ma, sta lei che lo dovrebbè sapè chi dovrebbe da esse?", quantomeno fa sembrare che un mozzico di luce, lì dentro, ancora brilli.
"Eccheccazzo, però". Così, generico, solo perchè dimostrando di pensare rischiava di uscire dal personaggio. "scusa un attimo" – rutta – se ne compiace – "Glielo chiedo e te lo faccio venire a dire".
Già mi immagino questo che, uscito dal mio negozio, telefona alla madre, alla sorella o, oddio oddio non ci posso pensare, alla ragazza e gli fa "senti, il tipo del negozio ti vuole parlare, ha detto che gli devi dire marca e modello del televisore, non lo so perchè ma vòle parlà cò te, dimme se fa lo stronzo che je parto".
Ed è solo mercoledì.

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